Pubblico impiego e demansionamento
La Corte di cassazione con l’ordinanza 21261 del 13 settembre 2017 afferma che nel pubblico impiego l’utilizzo del lavoratore per mansioni che rientrano nella medesima categoria, non costituisce un’ipotesi di demansionamento.
Nel caso di specie, la Corte d’appello di Firenze, in parziale accoglimento della sentenza pronunciata dal giudice di primo grado, aveva riconosciuto che non era stata utilizzata pienamente la professionalità del lavoratore.
Configurando un’ipotesi di “sostanziale demansionamento” del dipendente, il giudice di primo grado e poi la Corte d’appello, ritenevano sussistente il conseguente danno biologico e disponevano la reintegrazione del lavoratore in mansioni equivalenti e il risarcimento del danno.
I giudici di legittimità accolgono il ricorso del datore di lavoro e cassano con rinvio la sentenza impugnata, precisando che il lavoratore ha il diritto ad essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, o a quelle considerate equivalenti, in relazione alla classificazione professionale prevista dai contratti collettivi.
La Corte chiarisce che l’art. 52, comma 1, lettera e), del d. lgs. n. 165/2001 dispone che nel pubblico impiego vige un “concetto di equivalenza “formale”, ancorato ad una valutazione demandata ai contratti collettivi, e non sindacabile da parte del giudice. Ne segue che condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità specifica che il lavoratore possa avere acquisito in una precedente fase del rapporto di lavoro alle dipendenze della PA”.
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