Mobbing e onere della prova
In un’ordinanza del 14 settembre 2017, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in tema di mobbing.
Nel caso di specie, il dipendente ha proposto ricorso nei confronti dell’Azienda Sanitaria Locale per la quale lavorava, lamentando di essere stato privato per oltre un decennio del suo ruolo di primario e isolato in un reparto fantasma.
Nella prospettazione del ricorrente, lo svuotamento pressoché totale delle sue mansioni, oltre a costituire un grave demansionamento, avrebbe configurato una condotta mobbizzante produttiva di un danno biologico, con conseguente diritto alla tutela risarcitoria.
La Corte d’appello di Lecce, in riforma della sentenza di primo grado, che aveva dichiarato nullo il ricorso in quanto privo degli elementi essenziali richiesti dall’articolo 414 cod. proc. civ., ha rigettato nel merito la domanda, evidenziando che il lavoratore aveva omesso di allegare e provare che i comportamenti tenuti dalla Asl erano caratterizzati da un «programmato disegno» avente lo «scopo di mortificarne la personalità e la professionalità».
La Cassazione ha ritenuto la decisione della Corte territoriale correttamente motivata.
Tale pronuncia, conforme all’indirizzo giurisprudenziale più volte fatto proprio dai Giudici di legittimità, ribadisce l’onere in capo al dipendente di provare in giudizio l’elemento soggettivo caratterizzante il mobbing, vale a dire «l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi». (Cass., n. 2147/2017; Cass., n. 2142/2017; Cass., n. 24029/2016; Cass., n. 17698/2014)
Si riporta un estratto della sentenza pubblicata:
“La sentenza impugnata, priva del dedotto profilo di contraddittorietà, è sul punto conforme al consolidato orientamento di questa Corte secondo cui il mobbing richiede: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi”
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