Il decreto di Ferragosto
Il decreto di agosto è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale e viene già ribattezzarlo decreto di Ferragosto, visto che è in vigore dal 15 agosto 2020.
Una denominazione questa che non prelude a grandi fortune (ovviamente c’è da augurarsi il contrario), considerato che un precedente, come si ricorderà, si rinviene nel decreto legge 13 agosto 2011 n. 138 che, pur mancando di un paio di giorni la festività, viene ricordato come la manovra di Ferragosto dell’allora Governo Berlusconi, che non raggiunse mirabili traguardi.
Vediamo adesso alcune delle disposizioni del decreto che riguardano il diritto del lavoro, salvo ogni ulteriore approfondimento.
Il Governo, con l’attuale decreto (art. 1), dà il via libera ad una nuova fase degli ammortizzatori sociali concepiti per far fronte al Covid-19: il traghettamento è compreso nel periodo dal 13 luglio al 31 dicembre 2020 e per una durata massima di nove settimane, incrementate di ulteriori nove settimane. Le ulteriori nove settimane di trattamenti sono riconosciute esclusivamente ai datori di lavoro ai quali sia stato già interamente autorizzato il precedente periodo di nove settimane, decorso il periodo autorizzato. Per questa seconda tranche è però previsto un contributo addizionale determinato sulla base del raffronto tra il fatturato aziendale del primo semestre 2020 e quello del corrispondente semestre 2019, pari: a) al 9 per cento della retribuzione globale che sarebbe spettata al lavoratore per le ore di lavoro non prestate durante la sospensione o riduzione dell’attività lavorativa, per i datori di lavoro che hanno avuto una riduzione del fatturato inferiore al venti per cento; b) al 18 per cento della retribuzione globale che sarebbe spettata al lavoratore per le ore di lavoro non prestate durante la sospensione o riduzione dell’attività lavorativa, per i datori di lavoro che non hanno avuto alcuna riduzione del fatturato. Il contributo addizionale non è dovuto dai datori di lavoro che hanno subito una riduzione del fatturato pari o superiore al 20 per cento e per coloro che hanno avviato l’attività di impresa successivamente al primo gennaio 2019.
Il decreto prevede (art. 3) per i datori di lavoro privati, con esclusione del settore agricolo, che non richiedono i trattamenti di integrazione salariale per Covid-19 e che abbiano già fruito, nei mesi di maggio e giugno 2020, di tali trattamenti l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali a loro carico, per un periodo massimo di quattro mesi, fruibili entro il 31 dicembre 2020, nei limiti del doppio delle ore di integrazione salariale già fruite nei predetti mesi di maggio e giugno 2020, con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL, riparametrato e applicato su base mensile. L’esonero può essere riconosciuto anche ai datori di lavoro che hanno richiesto periodi di integrazione salariale ai sensi del predetto decreto-legge n. 18 del 2020, collocati, anche parzialmente, in periodi successivi al 12 luglio 2020.
Una ulteriore misura di esonero (operante fino al 31 dicembre 2020) riguarda i datori, con esclusione del settore agricolo, che assumono, successivamente all’entrata in vigore del decreto, lavoratori subordinati a tempo indeterminato, con esclusione dei contratti di apprendistato e dei contratti di lavoro domestico. In tal caso viene riconosciuto l’esonero totale dal versamento dei contributi previdenziali a loro carico, per un periodo massimo di sei mesi decorrenti dall’assunzione, con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL, nel limite massimo di un importo di esonero pari a 8.060 euro su base annua, riparametrato e applicato su base mensile (art. 6).
Il decreto ritorna (art. 8) sul contratto a termine, modificando l’art. 93 del decreto rilancio (decreto-legge 19 maggio 2020 n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77). Nella nuova formulazione dell’art. 93 cit. viene sostituito il comma 1 : «In conseguenza dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, in deroga all’articolo 21 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 e fino al 31 dicembre 2020, ferma restando la durata massima complessiva di ventiquattro mesi, è possibile rinnovare o prorogare per un periodo massimo di dodici mesi e per una sola volta i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, anche in assenza delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81». La formula, se da un lato abbandona il precedente riferimento al “riavvio delle attività” facendo venir meno un elemento ritenuto necessario per accedere alla deroga, sembra, da altro lato, più restrittiva perché incanala la deroga dentro i limiti massimi temporali della disciplina standard.
Viene prorogato il divieto di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo e collettivi già previsto dalle ben note precedenti disposizioni (art. 14).
Il tenore letterale dell’art. 14 non è chiarissimo ma la lettura sistematica delle varie disposizioni sembra confermare l’operatività del divieto fino al 31 dicembre 2020.
A questa soluzione si perviene proprio leggendo gli artt. 1 e 3 prima esaminati unitamente all’art. 14 cit. il quale prevede che ai datori di lavoro che non abbiano integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili all’emergenza epidemiologica da COVID-19 di cui all’articolo 1 ovvero dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali di cui all’articolo 3 resta precluso l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223 e restano altresì sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020, fatte salve le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto di appalto. Alle stesse condizioni di cui al comma 1, resta, altresì, preclusa al datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, la facoltà di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e restano altresì sospese le procedure in corso di cui all’articolo 7 della medesima legge.
Da tale ultima formula potrebbe trarsi la conclusione che, nel caso di imprese che ricorrano ai trattamenti di integrazione salariale da Covid-19, il divieto di licenziamento è destinato ad operare solo fino alla integrale fruizione di tali trattamenti: in tali casi dunque non opererebbe uno specifico limite temporale ma il divieto verrebbe meno solo dopo al termine dell’integrazione salariale.
I divieti sopra indicati non si applicano nelle ipotesi di licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività, nei caso in cui nel corso della liquidazione non si configuri la cessione di un complesso di beni od attività che possano configurare un trasferimento d’azienda o di un ramo di essa ai sensi dell’articolo 2112 cod. civ., ovvero nelle ipotesi di accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo, a detti lavoratori è comunque riconosciuto il trattamento di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22. Sono altresì esclusi dal divieto i licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione. Nel caso in cui l’esercizio provvisorio sia disposto per uno specifico ramo dell’azienda, sono esclusi dal divieto i licenziamenti riguardanti i settori non compresi nello stesso.