Cass. civ., sez. lav., sent. 25 settembre 2024, n. 25621
Una recente sentenza della Cassazione ha affrontato il delicato tema della posticipazione dell’erogazione del trattamento di fine servizio per i dipendenti pubblici con riferimento, nello specifico, ai lavoratori in soprannumero che hanno avuto accesso al prepensionamento ai sensi dell’art. 11, co. 2, d.l. n. 95/2012. Questa disposizione, fino al 2016, ha reso possibile il pensionamento dei dipendenti pubblici eccedentari secondo i requisiti più favorevoli previgenti alla riforma c.d. Fornero, stabilendo altresì che la liquidazione del trattamento di fine rapporto avvenga al momento in cui i prepensionati avrebbero compiuto l’età pensionabile prevista dal regime ordinario post-riforma.
La liquidazione del TFS dei dipendenti pubblici viene posticipata rispetto alla cessazione del rapporto di lavoro, con finalità di contenimento della spesa: il regime generale prevede l’erogazione dopo 24 mesi in caso di pensionamento “anticipato” e dopo 12 mesi in caso di pensionamento per raggiungimento dei limiti di età o dell’anzianità massima (art. 3, co. 2, d.l. 97/1997). Queste previsioni sono state oggetto di più questioni di costituzionalità all’esito delle quali la Consulta, pur senza pervenire ad una dichiarazione di incostituzionalità, ha evidenziato lo squilibrio del sistema che rischia di compromettere, per i dipendenti pubblici, il godimento delle funzioni retributive e previdenziali del TFS (Corte cost., sentt. nn. 159/2019 e 130/2023).
Con la sentenza in oggetto, per quanto riguarda la specifica disposizione in esame, la Cassazione non ha condiviso i dubbi di costituzionalità sollevati dal ricorrente: la deroga rispetto al regime ordinario di liquidazione del TFS – che per i dipendenti pubblici prepensionati può avvenire a distanza anche di anni dalla cessazione del rapporto di lavoro – è integrata e bilanciata dal riconoscimento, ai lavoratori soprannumerari, del trattamento pensionistico in anticipo rispetto alla generalità dei lavoratori dipendenti, con applicazione dei più favorevoli requisiti di accesso alla pensione previsti prima della riforma del sistema previdenziale.
APE Sociale: non è necessario aver fruito dell’indennità di disoccupazione
da Admin2Cass. civ., sez. lav., sent. 17 settembre 2024, n. 24950
La Cassazione, con la sentenza in commento, prende posizione su un indirizzo dell’INPS secondo cui, per accedere al beneficio dell’APE Sociale, che consiste nella fruizione di una indennità fino al conseguimento dei requisiti per la pensione di vecchiaia, è necessario non solo trovarsi in stato di disoccupazione ma anche l’aver beneficiato di un’indennità di disoccupazione. L’INPS difendeva questa tesi sulla base del fatto che l’art. 1, co. 179, l. n. 232/2016 – che istituisce l’APE Sociale – condiziona la prestazione, fra le altre cose, al fatto che i richiedenti «abbiano concluso integralmente la prestazione per la disoccupazione loro spettante».
Secondo la Cassazione, che conferma le precedenti sentenze di merito, tale tesi è priva di fondamento. Un’interpretazione testuale e logica della disposizione rende evidente che il requisito della distanza temporale fra la fruizione dell’indennità e l’APE Sociale rileva solo qualora l’indennità sia stata effettivamente fruita, ma non condiziona affatto il diritto all’APE che, d’altra parte, è maggiormente necessario quando il beneficiario non ha potuto nemmeno beneficiare dell’indennità di disoccupazione.
La Cassazione sulla posticipazione del TFS per i dipendenti pubblici prepensionati
da Admin2Cass. civ., sez. lav., sent. 25 settembre 2024, n. 25621
Una recente sentenza della Cassazione ha affrontato il delicato tema della posticipazione dell’erogazione del trattamento di fine servizio per i dipendenti pubblici con riferimento, nello specifico, ai lavoratori in soprannumero che hanno avuto accesso al prepensionamento ai sensi dell’art. 11, co. 2, d.l. n. 95/2012. Questa disposizione, fino al 2016, ha reso possibile il pensionamento dei dipendenti pubblici eccedentari secondo i requisiti più favorevoli previgenti alla riforma c.d. Fornero, stabilendo altresì che la liquidazione del trattamento di fine rapporto avvenga al momento in cui i prepensionati avrebbero compiuto l’età pensionabile prevista dal regime ordinario post-riforma.
La liquidazione del TFS dei dipendenti pubblici viene posticipata rispetto alla cessazione del rapporto di lavoro, con finalità di contenimento della spesa: il regime generale prevede l’erogazione dopo 24 mesi in caso di pensionamento “anticipato” e dopo 12 mesi in caso di pensionamento per raggiungimento dei limiti di età o dell’anzianità massima (art. 3, co. 2, d.l. 97/1997). Queste previsioni sono state oggetto di più questioni di costituzionalità all’esito delle quali la Consulta, pur senza pervenire ad una dichiarazione di incostituzionalità, ha evidenziato lo squilibrio del sistema che rischia di compromettere, per i dipendenti pubblici, il godimento delle funzioni retributive e previdenziali del TFS (Corte cost., sentt. nn. 159/2019 e 130/2023).
Con la sentenza in oggetto, per quanto riguarda la specifica disposizione in esame, la Cassazione non ha condiviso i dubbi di costituzionalità sollevati dal ricorrente: la deroga rispetto al regime ordinario di liquidazione del TFS – che per i dipendenti pubblici prepensionati può avvenire a distanza anche di anni dalla cessazione del rapporto di lavoro – è integrata e bilanciata dal riconoscimento, ai lavoratori soprannumerari, del trattamento pensionistico in anticipo rispetto alla generalità dei lavoratori dipendenti, con applicazione dei più favorevoli requisiti di accesso alla pensione previsti prima della riforma del sistema previdenziale.
Licenziamento per attività lavorative durante la malattia: l’onere della prova è del datore
da Admin2Cass. civ., sez. lav., ord. 4 settembre 2024, n. 23747
La Cassazione, con una recente ordinanza, ha ribadito l’orientamento consolidatosi negli ultimi anni in tema di licenziamento del lavoratore che abbia svolto, in costanza di malattia, altre attività di natura lavorativa o extralavorativa. Il caso a quo riguardava il licenziamento per giusta causa di un dipendente il quale, a pochi giorni dal termine del periodo di malattia dovuto ad un infortunio ad un braccio, veniva ripreso mentre svolgeva attività lavorativa in un bar, compreso il sollevamento di alcuni leggeri carichi. Il licenziamento era stato ritenuto illegittimo in entrambi i precedenti gradi di giudizio, avendo i giudici di merito ritenuto che era onere del datore, non assolto, dimostrare che l’attività svolta dal lavoratore era tale da mettere a rischio la sua piena guarigione.
La Cassazione ha confermato tale statuizione, che si presenta coerente ai precedenti rilevanti in materia (Cass. n. 13063/2022), secondo i quali grava sul datore di lavoro la prova che la malattia sia simulata ovvero che l’attività sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio del dipendente: ciò in conseguenza dell’art. 5, l. 604/1966, secondo cui è il datore di lavoro a dover provare tutti gli elementi che integrano la fattispecie giustificativa del licenziamento. Il ricorso datoriale è stato, pertanto, rigettato.
Restituzione dell’indennità di disoccupazione e illegittimità del contratto a termine
da Admin2Cass. civ., sez. lav., ord. Interlocutoria 21 agosto 2024, n. 22985
Il lavoratore che, a seguito di scadenza di un contratto a termine, abbia fruito dell’indennità di disoccupazione, deve restituire all’INPS le somme percepite nel caso in cui venga accertata l’illegittimità del contratto a termine, con ricostituzione del rapporto a tempo indeterminato?
Il diritto a percepire l’indennità di disoccupazione è condizionato alla presenza di uno stato di disoccupazione involontaria che, retroattivamente, viene meno con la sentenza che ricostituisce ex tunc il rapporto a tempo indeterminato. Ma la stessa sentenza, secondo l’art. 28, co. 2, d.lgs. 81/2015, condanna il datore a pagare un’indennità risarcitoria omnicomprensiva il cui importo massimo è limitato a 12 mensilità di retribuzione.
Secondo la Sezione Lavoro della Cassazione, tale limitazione può rendere la tutela risarcitoria inidonea a realizzare la garanzia di sostegno al reddito cui è finalizzata l’indennità di disoccupazione, impedendo di considerare realmente venuto meno, per il periodo intermedio, lo stato di disoccupazione. Per questo, con l’ordinanza in oggetto la Sezione lavoro ha rimesso alle Sezioni Unite la questione, affinché venga chiarito a quali condizioni ricorre la ripetizione dell’indebito.
Decadenza dall’impugnazione del licenziamento e incapacità naturale
da Admin2Cass. civ., ord. interlocutoria 5 settembre 2024, n. 23874
Con l’ordinanza interlocutoria in oggetto, le Sezioni Unite della Cassazione hanno ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 6 della l. 604/1966, nella parte in cui prevede la decorrenza del termine di sessanta giorni per l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento fin dalla ricezione dell’atto anche nei casi di incolpevole incapacità naturale del lavoratore licenziato, processualmente accertata e conseguente alle sue condizioni di salute.
La questione di legittimità costituzionale è venuta in rilievo nel contesto di una controversia in cui era stata ritenuta tardiva l’impugnazione del licenziamento intimato ad una lavoratrice che, nel periodo in cui aveva ricevuto l’atto, era affetta da una grave crisi psicotica. Secondo un orientamento consolidato della Cassazione tale condizione di incapacità naturale, risolvendosi in uno stato soggettivo del destinatario del licenziamento, non può impedire la decorrenza della decadenza dall’impugnazione.
Secondo le Sezioni Unite, nell’impossibilità di interpretare la disposizione nel senso di far decorrere la decadenza dal momento in cui ha termine l’incapacità naturale, l’art. 6 della l. 604/1966 realizza un bilanciamento irragionevolmente sbilanciato a favore dell’obbiettivo di perseguire la certezza degli atti giuridici e dell’interesse della parte datoriale al consolidamento del licenziamento adottato da una parte, comprimendo oltre misura il diritto d’azione del lavoratore, riferito al suo diritto al lavoro, e il suo diritto alla salute. Per questo, le Sezioni Unite sollecitano un intervento additivo da parte della Consulta, che dovrebbe prevedere la possibilità di far decorrere la decadenza dal momento della cessazione dello stato di incapacità del licenziato, purché questa sia processualmente accertata e conseguente alle sue condizioni di salute.
ASpI: anche il disoccupato in carcere deve dichiarare l’immediata disponibilità al lavoro
da Admin2Cass. civ., sez. lav., sent. 21 agosto 2024, n. 22993
Un lavoratore dipendente veniva posto in custodia cautelare in carcere e, conseguentemente licenziato. Presentata domanda per conseguire l’indennità di disoccupazione (all’epoca dei fatti l’ASpI), l’INPS gliela riconosceva soltanto a partire dal momento, di alcuni mesi successivo, in cui era stata rilasciata la dichiarazione d’immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa. Il ricorso per ottenere il pagamento dell’indennità fin dal momento della presentazione della domanda era stato rigettato in primo grado ma accolto in Appello.
La Cassazione, viceversa, ha accolto il ricorso dell’INPS e affermato che l’indennità è dovuta solo dal rilascio della dichiarazione: nel contesto dell’ASpI, il legislatore ha prescritto in termini generali la necessità della dichiarazione di immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa, che non rappresenta un mero adempimento formale bensì è elemento costitutivo dello stesso stato di disoccupazione legalmente rilevante. Tale requisito non può ritenersi implicitamente derogato per chi si trova in carcere, dal momento che lo stato di detenzione non è logicamente o praticamente incompatibile con la dichiarazione di disponibilità al lavoro, potendo il detenuto essere autorizzato allo svolgimento di attività lavorativa o recuperare lo stato di libertà prima dell’arrivo di proposte di lavoro.