Cass. civ., sez. lav., ord. 20 giugno 2024, n. 17036
Ribadendo quanto affermato con una recente sentenza (Cass. civ., sez. lav., ord. 19 aprile 2024, n. 10627), la Cassazione torna sull’estensione dell’obbligo di ripescaggio cui il datore di lavoro è tenuto prima di comunicare il licenziamento per motivo oggettivo, confermando la pronuncia di Appello che aveva escluso la violazione dell’obbligo di repechage nel caso di alcuni licenziamenti per motivo oggettivo intimati quando nell’organizzazione aziendale erano disponibili soltanto posizioni, anche di inquadramento inferiore, per le quali i ricorrenti non erano formati.
La Cassazione ha condiviso il ragionamento dei giudici di Appello secondo cui, per il bilanciamento fra il diritto del lavoratore al mantenimento del posto e quello del datore a perseguire un’efficiente organizzazione aziendale, il repêchage non si estende ad obblighi di formazione per mansioni diverse da quelle già rientranti nel bagaglio professionale del lavoratore.
La possibilità di destinare il lavoratore a mansioni inferiori in modo da evitare il licenziamento, secondo la Cassazione, è da ricondurre alla previsione del co. 2 dell’art. 2103 c.c., secondo cui l’adibizione a mansioni inferiori può essere disposta «in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali», e non alla previsione del co. 6 della stessa disposizione, che prevede il demansionamento c.d. negoziale, fra le altre cose, «nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione». La Corte richiama altresì, a conferma del proprio ragionamento, il co. 3 della disposizione secondo cui il mancato assolvimento dell’obbligo formativo non determina la nullità dell’atto di assegnazione alle nuove mansioni.
In base a tale ragionamento, la Cassazione ha pertanto affermato il principio di diritto secondo cui l’obbligo di repêchage, ai sensi dell’art. 2103, co. 2, c.c., è limitato alle mansioni inferiori compatibili con il bagaglio professionale di cui il lavoratore sia dotato al momento del licenziamento, che non necessitino di una specifica formazione che il lavoratore non abbia.
Sussiste un obbligo di formazione per le mansioni inferiori in caso di repechage? La risposta della Cassazione
da Admin2Cass. civ., sez. lav., ord. 20 giugno 2024, n. 17036
Ribadendo quanto affermato con una recente sentenza (Cass. civ., sez. lav., ord. 19 aprile 2024, n. 10627), la Cassazione torna sull’estensione dell’obbligo di ripescaggio cui il datore di lavoro è tenuto prima di comunicare il licenziamento per motivo oggettivo, confermando la pronuncia di Appello che aveva escluso la violazione dell’obbligo di repechage nel caso di alcuni licenziamenti per motivo oggettivo intimati quando nell’organizzazione aziendale erano disponibili soltanto posizioni, anche di inquadramento inferiore, per le quali i ricorrenti non erano formati.
La Cassazione ha condiviso il ragionamento dei giudici di Appello secondo cui, per il bilanciamento fra il diritto del lavoratore al mantenimento del posto e quello del datore a perseguire un’efficiente organizzazione aziendale, il repêchage non si estende ad obblighi di formazione per mansioni diverse da quelle già rientranti nel bagaglio professionale del lavoratore.
La possibilità di destinare il lavoratore a mansioni inferiori in modo da evitare il licenziamento, secondo la Cassazione, è da ricondurre alla previsione del co. 2 dell’art. 2103 c.c., secondo cui l’adibizione a mansioni inferiori può essere disposta «in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali», e non alla previsione del co. 6 della stessa disposizione, che prevede il demansionamento c.d. negoziale, fra le altre cose, «nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione». La Corte richiama altresì, a conferma del proprio ragionamento, il co. 3 della disposizione secondo cui il mancato assolvimento dell’obbligo formativo non determina la nullità dell’atto di assegnazione alle nuove mansioni.
In base a tale ragionamento, la Cassazione ha pertanto affermato il principio di diritto secondo cui l’obbligo di repêchage, ai sensi dell’art. 2103, co. 2, c.c., è limitato alle mansioni inferiori compatibili con il bagaglio professionale di cui il lavoratore sia dotato al momento del licenziamento, che non necessitino di una specifica formazione che il lavoratore non abbia.
Uso improprio del whistleblowing e licenziamento per giusta causa
da Admin2Cass. civ, sez. lav., sent. 27 giugno 2024, n. 17715
La Cassazione afferma che la tutela per i whistleblower non può essere estesa fino a comprendere l’ipotesi in cui il lavoratore effettui di propria iniziativa indagini violando la legge per raccogliere prove di illeciti nell’ambiente di lavoro.
La Corte ha ricordato che la registrazione di conversazioni nel contesto lavorativo, all’insaputa dei partecipanti può essere resa legittima dalla necessità di difendere un diritto in giudizio, purché l’utilizzazione avvenga solo in funzione di tale finalità e per il periodo di tempo strettamente occorrente. In quest’ottica, la registrazione di conversazioni può anche rientrare nell’ambito di applicazione del whistleblowing, purché sia sussistente una necessità difensiva quale potrebbe essere una difesa da sostenere in giudizio, incentrata su un intento di rappresaglia per effetto della segnalazione.
Nel caso di specie, tuttavia, tale necessità difensiva era evidentemente assente.
Dimissioni per giusta causa e diritto alla NASpI
da Admin2Trib. Milano, sez. lav., sent. 24 aprile 2024, n. 5584
Un lavoratore, dipendente di una società, rassegnava le dimissioni «per giusta causa» per avere la società datrice di lavoro ripetutamente ignorato le richieste volte al conseguimento dell’inquadramento come Quadro, ritenuto dovuto in quanto già riconosciuto ai dipendenti con mansioni analoghe nella complessa organizzazione aziendale, nonché delle relative differenze retributive e contributive.
Proposta all’INPS domanda per il conseguimento dell’indennità NASpI, l’Ente previdenziale la rigettava in quanto la causa di cessazione dell’attività lavorativa non sarebbe stata valida per il trattamento.
Il Tribunale di Milano ha accolto la domanda del lavoratore volta ad ottenere la prestazione previdenziale, ritenendo accertata la sussistenza della giusta causa delle dimissioni rassegnate. Quindi, affermava la natura involontaria dello stato di disoccupazione del ricorrente e, pertanto, il diritto a godere della NASpI. La nozione di dimissioni per giusta causa non è, infatti, tassativa bensì flessibile ed aperta a fattispecie atipiche, fra cui rientrano le dimissioni rassegnate in ragione del grave inadempimento datoriale costituito dal sotto-inquadramento.
Il Tribunalen ha altresì affermato che la giusta causa delle dimissioni non è esclusa dall’aver il lavoratore stipulato una conciliazione con l’ex datrice di lavoro: la trattativa in sede conciliativa, lungi dall’escludere la giusta causa, evidenzia proprio l’intenzione del lavoratore di agire per la stessa, benché stragiudizialmente, e l’impegno economico assunto dalla società con la conciliazione implica un tacito riconoscimento della giusta causa stessa.
Lavoro autonomo a termine e risarcimento integrale del danno in caso di qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato
da Admin2Cass. civ., sez. lav., ord. 25 giugno 2024 n. 17450
La Corte di Appello aveva riconosciuto la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato relativamente ad una collaborazione formalmente autonoma protrattasi per oltre dieci anni, ricorrendo i tratti tipici della «subordinazione attenuata» consistente nell’inserimento continuativo ed organico della prestazione nell’organizzazione imprenditoriale, con costante messa a disposizione delle energie lavorative da parte della collaboratrice.
Dichiarato sussistente il rapporto subordinato a tempo indeterminato, condannava il datore di lavoro a riammettere in servizio la lavoratrice e, quanto alle conseguenze risarcitorie, al pagamento dell’indennità risarcitoria di cui all’art. 32, co. 5, della l. 183/2010.
La Cassazione ha affermato la fondatezza del ricorso principale con cui la lavoratrice lamentava l’applicazione dell’indennità risarcitoria forfettizzata in luogo dell’integrale risarcimento del danno. Infatti, il regime di cui all’art. 32, co. 5, d.l. 183/2010 (ora art. 28, d.lgs. 81/2015), previsto per la conversione del contratto a tempo determinato, non è applicabile alla costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a seguito dell’illegittima stipulazione di contratti di lavoro autonomo, anche quanto a diverso disvalore, delle due ipotesi.
No al riconoscimento facciale per la registrazione delle presenze e al gestionale che consente il monitoraggio dell’attività lavorativa
da Admin2Il Garante per la protezione dei dati personali interviene ha rilevato l’illegittimità, per contrasto con la normativa in materia di protezione dei dati personali, di due sistemi tecnologici impiegati da un’autofficina: il primo era un hardware che effettuava il riconoscimento facciale dei dipendenti all’ingresso e all’uscita dall’officina, al fine di registrare le presenze; il secondo era un software gestionale, apparentemente molto diffuso nel settore, che rendeva possibile monitorare il tempo impiegato per le attività svolte dai meccanici, cui veniva richiesto di registrare tramite codice a barre individuale le varie fasi dell’attività lavorativa comprese le pause, con indicazione della specifica causale dell’interruzione.
Per quanto riguarda il sistema di rilevazione delle presenze, il Garante afferma che tale finalità, allo stato attuale dell’ordinamento, non può essere perseguita tramite trattamento di dati biometrici dei dipendenti quali quelli necessari al riconoscimento facciale. Infatti, i dati biometrici rientrano fra le c.d. categorie particolari di dati (ex «dati sensibili») il cui trattamento è consentito solo al ricorrere delle condizioni di cui al paragrafo 2 dell’art. 9 del GDPR il quale, nel contesto lavorativo, limita la possibilità di trattare dati biometrici solo ai casi in cui ciò sia «necessario per assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento o dell’interessato in materia di diritto del lavoro e della sicurezza sociale».
Con riferimento al software gestionale, invece, il Garante ha contestato l’indisponibilità della Società a chiarire le caratteristiche essenziali del programma, come era necessario al fine di valutare la liceità del trattamento di dati personali in atto, e ha soprattutto rilevato che tale mancanza di trasparenza aveva riguardato anche il rapporto con i lavoratori ai quali era stata fornita un’informativa del tutto carente degli elementi necessari, fra cui persino la base giuridica del trattamento. Pertanto, il trattamento di dati personali attraverso il gestionale è stato ritenuto in violazione dei principi di liceità, correttezza e trasparenza.
L’impossibilità di assegnazione del lavoratore disabile a mansioni diverse deve essere valutata dalla commissione medica
da Admin2Cass. civ., sez. lav., ord. 2 luglio 2024, n. 18094
Un lavoratore con condizione di disabilità veniva licenziato dal datore di lavoro che lo aveva assunto obbligatoriamente secondo la legge n. 68/1999 per giustificato motivo oggettivo consistente nell’esternalizzazione della parte dell’attività aziendale cui era addetto, escludendo – sulla basa di una autonoma valutazione – la possibilità di un reimpiego a causa dell’incompatibilità nelle altre mansioni disponibili con il suo stato di salute. I giudici di merito confermavano la legittimità del licenziamento.
La Cassazione è giunta a conclusioni opposte ed ha affermato che il datore non può procedere al licenziamento sulla scorta di una unilaterale valutazione circa l’incompatibilità della condizione del dipendente disabile con le altre mansioni, ma deve previamente attivare la procedura prescritta dalla legge.