Una interessante sentenza della Cassazione afferma che ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni deve applicarsi l’art. 18 stat. lav. nella versione antecedente alla riforma Fornero (l. n. 92/2012).
La sentenza – di cui si è molto discusso nell’ultima settimana spesso con fraintedimenti e approssimazione – è la n. 11868 del 9 giugno 2016.
La particolare complessità della motivazione rende utile, anche per rimanere al dato testuale, riprodurne di seguito il passaggio di maggiore interesse.
“3.2 – Il Collegio non ignora che sulla questione che qui viene in rilievo si sono formati nella giurisprudenza di merito, anche sulla base delle indicazioni provenienti dalla dottrina, orientamenti contrastanti che, per giungere ad affermare o a negare la applicabilità ai rapporti di pubblico impiego contrattualizzato della nuova disciplina, hanno valorizzato, principalmente, da un lato il rinvio mobile alle disposizioni dettate dalla legge n. 300 del 1970 contenuto nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 51 e la necessità di garantire, anche dopo la riforma, uniformità di trattamento fra impiego pubblico e privato; dall’altro la L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 7 e 8 nonchè la inconciliabilità della nuova disciplina con lo specifico regime imperativo dettato dagli artt. 54 e segg. delle norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.
La sentenza di questa Corte 25 novembre 2015 n. 24157 ha fatto propria solo parzialmente la prima delle due opzioni esegetiche a confronto, poichè, pur affermando la applicabilità della riforma ai rapporti disciplinati dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, ha ritenuto di dovere, comunque, salvaguardare la specialità della normativa del procedimento disciplinare dettata per l’impiego pubblico dalle disposizioni sopra richiamate e, quindi, ha ricondotto all’art. 18 comma 1 e 2 modificato la violazione delle regole procedimentali, in quanto causa di nullità del licenziamento.
Il Collegio ritiene che detto orientamento debba essere disatteso, giacchè plurime ragioni inducono ad escludere che il nuovo regime delle tutele in caso di licenziamento illegittimo possa essere applicato anche ai rapporti di lavoro disciplinati dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2.
Invero la L. n. 92 del 2012, art. 1, dopo aver previsto al comma 7 che “Le disposizioni della presente legge, per quanto da esse non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 1, comma 2, e successive modificazioni, in coerenza con quanto disposto dall’art. 2, comma 2, del medesimo decreto legislativo. Restano ferme le previsioni di cui all’art. 3 del medesimo decreto legislativo.”, al comma 8 aggiunge che “Al fine dell’applicazione del comma 7 il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, individua e definisce, anche mediante iniziative normative, gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche”.
Sebbene la norma, che risulta dal combinato disposto dei commi 7 e 8, sia stata formulata in termini diversi rispetto ad altre disposizioni, con le quali è stata esclusa l’automatica estensione all’impiego pubblico contrattualizzato di norme dettate per l’impiego privato (si pensi, ad esempio, alla D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 1, comma 2), tuttavia a fini interpretativi assume peculiare rilievo il rinvio ad un successivo intervento normativo contenuto nel comma 8, non dissimile da quello previsto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, comma 8, che ha, appunto, demandato al Ministro della funzione pubblica, previa consultazione delle organizzazioni sindacali, di assumere le iniziative necessarie per armonizzare la disciplina del pubblico impiego con la nuova normativa, pacificamente applicabile al solo impiego privato.
La circostanza che il comma 7 faccia salve le disposizioni della L. n. 92 che dispongano in senso diverso, si giustifica considerando che la stessa legge contiene anche norme che si riferiscono espressamente all’impiego pubblico (in particolare l’art. 2, comma 2, esclude dall’ambito della operatività dell’ASPI i dipendenti delle pubbliche amministrazioni), sicchè la eccezione opera solo con riferimento alle disposizioni in relazione alle quali la questione della applicabilità all’impiego pubblico sia stata già risolta in modo espresso dal legislatore del 2012.
Non è, questo, il caso della nuova disciplina del licenziamento, perchè sulla estensione della stessa all’impiego pubblico nulla è detto nell’art. 1, con la conseguenza che, in difetto di una espressa previsione, non può che operare il rinvio di cui al comma 8.
Ciò comporta che, sino al successivo intervento normativo di armonizzazione, non si estendono ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni le modifiche apportate all’art. 18 dello Statuto, con la conseguenza che la tutela da riconoscere a detti dipendenti in caso di licenziamento illegittimo resta quella assicurata dalla previgente formulazione della norma.
3.3 – Dette conclusioni, fondate sul tenore letterale della disciplina in commento, sono avvalorate da considerazioni di ordine logico e sistematico che, nel rispetto della doverosa sintesi imposta dall’art. 132 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c., possono essere così riassunte:
- a) la definizione delle finalità della L. n. 92 del 2012, per come formulata nell’art. 1, comma 1, tiene conto unicamente delle esigenze proprie dell’impresa privata, alla quale solo può riferirsi la lettera c), che pone una inscindibile correlazione fra flessibilità in uscita ed in entrata, allargando le maglie della prima e riducendo nel contempo l’uso improprio delle tipologie contrattuali diverse dal rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato;
- b) la formulazione dell’art. 18, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, introduce una modulazione delle sanzioni con riferimento ad ipotesi di illegittimità pensate in relazione al solo lavoro privato, che non si prestano ad essere estese all’impiego pubblico contrattualizzato per il quale il legislatore, in particolar modo con il D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, ha dettato una disciplina inderogabile, tipizzando anche illeciti disciplinari ai quali deve necessariamente conseguire la sanzione del licenziamento;
- c) la inconciliabilità della nuova normativa con le disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 165 del 2001 è particolarmente evidente in relazione al licenziamento intimato senza il necessario rispetto delle garanzie procedimentali, posto che il comma 6 dell’art. 18 fa riferimento alla sola L. n. 300 del 1970, art. 7 e non agli artt. 55 e 55 bis del D.Lgs. citato, con i quali il legislatore, oltre a sottrarre alla contrattazione collettiva la disciplina del procedimento, del quale ha previsto termini e forme, ha anche affermato il carattere inderogabile delle disposizioni dettate “ai sensi e per gli effetti dell’art. 1339 c.c. e artt. 1419 c.c. e segg.”;
- d) una eventuale modulazione delle tutele nell’ambito dell’impiego pubblico contrattualizzato richiede da parte del legislatore una ponderazione di interessi diversa da quella compiuta per l’impiego privato, poichè, come avvertito dalla Corte Costituzionale, mentre in quest’ultimo il potere di licenziamento del datore di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il dipendente, nel settore pubblico il potere di risolvere il rapporto di lavoro, è circondato da garanzie e limiti che sono posti non solo e non tanto nell’interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi (Corte Cost. 24.10.2008 n. 351).
Viene, cioè, in rilievo non l’art. 41 Cost., commi 1 e 2, bensì l’art. 97 della Carta fondamentale, che impone di assicurare il buon andamento e la imparzialità della amministrazione pubblica.
3.4 – La ritenuta inapplicabilità della riforma all’impiego pubblico contrattualizzato non può essere esclusa solo facendo leva sul rinvio contenuto nella L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 51, comma 2, “e successive modificazioni ed integrazioni”. Osserva innanzitutto il Collegio che il legislatore del T. U. nel rendere applicabili le disposizioni dello Statuto e, quindi, l’art. 18, a tutte le amministrazioni pubbliche, a prescindere dal numero dei dipendenti, ha voluto escludere in ogni caso, pur in un contesto di tendenziale armonizzazione fra impiego pubblico e privato, una tutela diversa da quella reale nell’ipotesi di licenziamento illegittimo, anche per quelle amministrazioni, pur numerose (si pensi, ad esempio agli enti territoriali minori di limitate dimensioni), per le quali sarebbe stata altrimenti applicabile la tutela obbligatoria prevista dalla L. n. 604 del 1966, art. 8.
Il rinvio, seppur mobile, nasce limitato da detta scelta fondamentale compiuta dal legislatore, che rende incompatibile con la volontà espressa nella norma di rinvio l’automatico recepimento di interventi normativi successivi, che modifichino la norma richiamata incidendo sulla natura stessa della tutela riconosciuta al dipendente licenziato.
Va, poi, sottolineato che, anche in presenza di una norma di rinvio finalizzata ad estendere ad un diverso ambito una normativa nata per disciplinare altri rapporti giuridici, è consentito al legislatore di limitare, con un successivo intervento normativo di pari rango, il rinvio medesimo e, quindi, di escludere l’automatica estensione di modifiche della disciplina richiamata.
Detto intervento, che è quello verificatosi nella fattispecie, fa sì che il rinvio si trasformi da mobile a fisso, ossia che la norma richiamata resti cristallizzata nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla riforma, che, quindi, continua a disciplinare i rapporti interessati dalla norma di rinvio, dando vita in tal modo ad una duplicità di normative, ciascuna applicabile in relazione alla diversa natura dei rapporti giuridici in rilievo.
In via conclusiva ritiene il Collegio di dovere affermare, per le considerazioni tutte sopra esposte, che la L. n. 300 del 1970, art. 18, nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla L. n. 92 del 2012, non è stato espunto dall’ordinamento ma resta tuttora in vigore limitatamente ai rapporti di lavoro di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2.”
IL CCNL del settore Legno Arredo
0 Commenti-da adminIn data 13 dicembre 2016, è stato raggiunto un accordo tra FederlegnoArredo e Feneal-Uil, Filca-Cisl e Fillea Cgil per il rinnovo del contratto collettivo nazionale per i dipendenti delle aziende operanti nei settori legno, sughero, mobile ed arredamento, boschivi e forestali.
Tale accordo è valido per il triennio che si estende dal 1° aprile 2016 al 31 marzo 2019.
Per quanto concerne l’aspetto dell’aumento retributivo, tale CCNL configura una sorta di “doppio binario”: a partire dal 2018, il calcolo degli aumenti dei minimi salariali non verrà più svolto sulla base delle previsioni inflattive, bensì a consuntivo, su indici predefiniti e identificabili con certezza.
L’accordo prevede altresì, in materia di previdenza complementare, un incremento dei versamenti destinati al fondo Arco; a partire dal 1° gennaio 2019, le aliquote a carico del datore di lavoro aumenteranno dello 0,30% rispetto a quelle previste per il 2016.
Inoltre, significativo è l’art. 57-bis, sull’assistenza sanitaria integrativa, il quale prevede che la quota a carico delle imprese dovrà essere pari a 13 euro per 12 mensilità, a decorrere dal 1° gennaio 2017 e, successivamente, la contribuzione aumenterà fino a 15 euro per 12 mensilità, con decorrenza dal 1°gennaio 2018.
Occorre anche ricordare la possibilità per il datore di lavoro, prevista dall’art. 19 del CCNL, di disporre di orari settimanali di lavoro in regime di flessibilità per l’anno solare. Ai periodi di maggiore/minore intensità produttiva dovranno corrispondere equivalenti riposi di conguaglio o recuperi di prestazione. Al fine dell’attivazione degli orari settimanali di lavoro in regime di flessibilità, il datore di lavoro deve dare comunicazione preventiva alle R.S.U., informandole delle esigenze legate a tale scelta di mutamento dell’orario, sia nel caso dell’aumento che in quello della diminuzione.
I controlli difensivi secondo il vecchio art. 4 stat. lav.
0 Commenti-da adminCass., sez. lav., 8 novembre 2016 n. 22662– il licenziamento per giusta causa e i controlli difensivi nel previgente testo dell’ art. 4 St. lav.
La Corte di Appello aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato a una lavoratrice; quest’ultima era stata ripresa da una telecamera mentre sfilava una busta contenente denaro dalla cassaforte aziendale.
L’esito di quest’ultima sentenza, tuttavia, è stato rovesciato dal giudizio della Corte di Cassazione.
Interpretando il testo dell’art. 4 Stat. lav. vigente all’epoca dei fatti, la Corte ha dichiarato l’insussistenza della violazione di tale disposizione statutaria, pur in mancanza dell’accordo con le rappresentanze sindacali, se dall’uso degli impianti di videosorveglianza non deriva “anche la possibilità di controllo a distanza dei lavoratori “(art. 4 St. lav., comma 2, testo in G.U.).
Occorre precisare che tale decisione riguarda soltanto i cd. controlli difensivi, ossia quei controlli che non sono volti a verificare l’esatto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro, bensì a tutelare i beni del patrimonio aziendale e a prevenire la perpetrazione di comportamenti illeciti.
Videosorveglianza: profili sanzionatori
0 Commenti-da adminIl Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con la nota n. 11241 del 1° giugno 2016 (1), risponde ad un quesito in merito al provvedimento di prescrizione da impartire quando, nel corso di ispezioni, si accerti l’installazione e l’impiego illecito di impianti audiovisivi per finalità di controllo a distanza dei lavoratori in orario di lavoro.
Il Ministero, dopo aver ricordato che la modifica dell’art. 4, c. 1, della legge n. 300/1970, ad opera dell’art. 23, co. 1, del d.lgs. n. 151/2015, prevede, anche nella sua nuova formulazione, che l’installazione di un impianto di videosorveglianza non possa avvenire antecedentemente a (e quindi in assenza di) uno specifico accordo con le organizzazioni sindacali o, in mancanza di esso, alla intervenuta autorizzazione rilasciata da parte della Direzione del Lavoro territorialmente competente, ricorda che la violazione della previsione dell’art. 4 non è esclusa dalla circostanza che le apparecchiature siano solo installate ma non ancora funzionanti, né dall’eventuale preavviso dato ai lavoratori, né infine dal fatto che il controllo sia discontinuo perché esercitato in locali dove i lavoratori possono trovarsi solo saltuariamente.
La condotta criminosa, continua la nota, è rappresentata dalla mera installazione non autorizzata dell’impianto, a prescindere dal suo effettivo utilizzo e la stessa Autorità Garante della Privacy ha ribadito più volte che non è legittimo provvedere all’installazione di un impianto di video-sorveglianza senza che sia intervenuto il relativo accordo con le rappresentanze sindacali o, in subordine, senza l’autorizzazione rilasciata dalla Direzione Territoriale del Lavoro.
Pertanto, qualora nel corso dell’attività ispettiva, l’ispettore riscontri l’installazione di impianti audiovisivi in assenza di uno specifico accordo con le organizzazioni sindacali ovvero in assenza dell’autorizzazione rilasciata da parte della Direzione del Lavoro territorialmente competente, deve impartire una prescrizione, ai sensi dell’art. 20 del d.lgs. n. 758/1994, al fine di porre rimedio all’irregolarità riscontrata mediante l’immediata cessazione della condotta libera illecita e la rimozione materiale degli impianti audiovisivi, essendo tale adempimento l’unico idoneo ad “eliminare la contravvenzione accertata”.
Per eliminare la contravvenzione accertata, l’organo di vigilanza, nel verbale di prescrizione, deve fissare per la regolarizzazione un termine congruo ma non eccedente il periodo di tempo tecnicamente necessario.
Secondo il Ministero, infine, qualora nel periodo di tempo fissato dall’organo di vigilanza venga siglato l’accordo sindacale ovvero venga rilasciata l’autorizzazione della competente Direzione Territoriale del Lavoro, venendo meno i presupposti oggettivi dell’illecito, l’ispettore può ammettere “il contravventore a pagare in sede amministrativa, nel termine di trenta giorni, una somma pari al quarto del massimo dell’ammenda stabilità per la contravvenzione commessa” (art. 21 d.lgs. n. 758/1994).
Licenziamento per giusta causa ed esecuzione di ordini
0 Commenti-da adminCon la sentenza n. 13149 del 24 giugno 2016 la Corte di cassazione esamina l’ipotesi di licenziamento di una lavoratrice per giusta causa, per aver la stessa eseguito materialmente ordini provenienti dal suo responsabile gerarchico atti a realizzare un’operazione truffaldina.
La Corte d’appello di Torino, ricostruita la situazione ambientale in cui erano maturate le condotte ascritte alla lavoratrice, osservava che la dipendente era una mera esecutrice materiale degli ordini, mentre la responsabilità dell’operazione andava ascritta al responsabile della struttura, pertanto visti i condizionamenti ambientali in cui ella operava, non poteva usarsi lo stesso metro sanzionatorio nei confronti di chi aveva espresso l’ordine e di chi lo aveva eseguito.
Per il Giudice di legittimità, invece, “la condotta di un dipendente che esegua ordini provenienti dal responsabile gerarchico, che integrino violazioni dolose di leggi e doveri d’ufficio, ponendosi in una posizione di acritica obbedienza, non può essere valutato quale mero errore frutto di leggerezza né tale condotta può essere giustificata dal condizionamento ambientale in cui il dipendente si trovava ad operare. Le gravi e reiterate violazioni di legge sono invece idonee ad integrare un’insanabile rottura del vincolo fiduciario e costituiscono giusta causa di licenziamento poiché contrarie al disposto dell’art. 2104 c.c. che, nel prescrivere che il prestatore di lavoro debba osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del rapporto impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende, obbliga lo stesso prestatore ad usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale”.
La Corte costituzionale e il precariato della scuola
0 Commenti-da adminLa Corte costituzionale, nella sentenza n. 187, depositata il 20 luglio 2016, ha dichiarato costituzionalmente illegittima la normativa nazionale in materia di contratti a tempo determinato nel comparto scuola e in particolare “dell’art. 4, commi 1 e 11, della legge 3 maggio 1999, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico), nella parte in cui autorizza, in mancanza di limiti effettivi alla durata massima totale dei rapporti di lavoro successivi, il rinnovo potenzialmente illimitato di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza che ragioni obiettive lo giustifichino”.
Tale decisione era largamente prevedibile dopo la nota sentenza Mascolo della Corte di Giustizia (cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13).
Proprio da tale decisione muove l’analisi della Corte costituzionale.
Secondo la Corte europea le esigenze di continuità didattica che inducono ad assunzioni temporanee di dipendenti nel comparto scuola possono costituire una ragione obiettiva che giustifica sia la durata determinata dei contratti conclusi con il personale supplente, sia il rinnovo di tali contratti in funzione delle esigenze di continuità didattica.
Tuttavia, nel caso in esame. il rinnovo di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato al fine di soddisfare queste esigenze non hanno avuto, di fatto, un carattere provvisorio, ma, al contrario, permanente e durevole, e pertanto non giustificato.
Dalla decisione della Corte di Giustizia, per il Giudice delle leggi, ne consegue la “illegittimità costituzionale, dell’art. 4, commi 1 e 11, della legge n. 124 del 1999”.
La normativa comunitaria non prevede però misure sanzionatorie specifiche, rimettendone l’individuazione alle autorità nazionali e limitandosi a definirne i caratteri essenziali (dissuasività, proporzionalità, effettività).
Restano, dunque, spazi per la normativa nazionale sulle ricadute sanzionatorie dell’illecito.
La Corte costituzionale, anche in questo caso, muove dalla sentenza Mascolo che individua alcune delle misure che possono essere adottate (procedure di assunzione certe, anche nel tempo, e risarcimento del danno), non escludendone altre, purché rispondenti ai requisiti ricordati.
Secondo la Corte Costituzionale le misure sono fra loro alternative e quindi si deve ritenere sufficiente l’applicazione di una sola di esse purché “presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso e cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione”.
Da tale principio deriva, secondo le conclusioni della Corte, che gli interventi posti in essere dall’Italia sono adeguati essendo previsto per i docenti un programma straordinario di assunzione attraverso o lo scorrimento della graduatoria o concorsi riservati e per il personale ATA il risarcimento del danno espressamente preso in considerazione dalla normativa in questione (legge n. 107 del 2015).
Art. 18, pubblico impiego, reintegrazione old style
0 Commenti-da adminUna interessante sentenza della Cassazione afferma che ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni deve applicarsi l’art. 18 stat. lav. nella versione antecedente alla riforma Fornero (l. n. 92/2012).
La sentenza – di cui si è molto discusso nell’ultima settimana spesso con fraintedimenti e approssimazione – è la n. 11868 del 9 giugno 2016.
La particolare complessità della motivazione rende utile, anche per rimanere al dato testuale, riprodurne di seguito il passaggio di maggiore interesse.
“3.2 – Il Collegio non ignora che sulla questione che qui viene in rilievo si sono formati nella giurisprudenza di merito, anche sulla base delle indicazioni provenienti dalla dottrina, orientamenti contrastanti che, per giungere ad affermare o a negare la applicabilità ai rapporti di pubblico impiego contrattualizzato della nuova disciplina, hanno valorizzato, principalmente, da un lato il rinvio mobile alle disposizioni dettate dalla legge n. 300 del 1970 contenuto nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 51 e la necessità di garantire, anche dopo la riforma, uniformità di trattamento fra impiego pubblico e privato; dall’altro la L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 7 e 8 nonchè la inconciliabilità della nuova disciplina con lo specifico regime imperativo dettato dagli artt. 54 e segg. delle norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.
La sentenza di questa Corte 25 novembre 2015 n. 24157 ha fatto propria solo parzialmente la prima delle due opzioni esegetiche a confronto, poichè, pur affermando la applicabilità della riforma ai rapporti disciplinati dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, ha ritenuto di dovere, comunque, salvaguardare la specialità della normativa del procedimento disciplinare dettata per l’impiego pubblico dalle disposizioni sopra richiamate e, quindi, ha ricondotto all’art. 18 comma 1 e 2 modificato la violazione delle regole procedimentali, in quanto causa di nullità del licenziamento.
Il Collegio ritiene che detto orientamento debba essere disatteso, giacchè plurime ragioni inducono ad escludere che il nuovo regime delle tutele in caso di licenziamento illegittimo possa essere applicato anche ai rapporti di lavoro disciplinati dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2.
Invero la L. n. 92 del 2012, art. 1, dopo aver previsto al comma 7 che “Le disposizioni della presente legge, per quanto da esse non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 1, comma 2, e successive modificazioni, in coerenza con quanto disposto dall’art. 2, comma 2, del medesimo decreto legislativo. Restano ferme le previsioni di cui all’art. 3 del medesimo decreto legislativo.”, al comma 8 aggiunge che “Al fine dell’applicazione del comma 7 il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, individua e definisce, anche mediante iniziative normative, gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche”.
Sebbene la norma, che risulta dal combinato disposto dei commi 7 e 8, sia stata formulata in termini diversi rispetto ad altre disposizioni, con le quali è stata esclusa l’automatica estensione all’impiego pubblico contrattualizzato di norme dettate per l’impiego privato (si pensi, ad esempio, alla D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 1, comma 2), tuttavia a fini interpretativi assume peculiare rilievo il rinvio ad un successivo intervento normativo contenuto nel comma 8, non dissimile da quello previsto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, comma 8, che ha, appunto, demandato al Ministro della funzione pubblica, previa consultazione delle organizzazioni sindacali, di assumere le iniziative necessarie per armonizzare la disciplina del pubblico impiego con la nuova normativa, pacificamente applicabile al solo impiego privato.
La circostanza che il comma 7 faccia salve le disposizioni della L. n. 92 che dispongano in senso diverso, si giustifica considerando che la stessa legge contiene anche norme che si riferiscono espressamente all’impiego pubblico (in particolare l’art. 2, comma 2, esclude dall’ambito della operatività dell’ASPI i dipendenti delle pubbliche amministrazioni), sicchè la eccezione opera solo con riferimento alle disposizioni in relazione alle quali la questione della applicabilità all’impiego pubblico sia stata già risolta in modo espresso dal legislatore del 2012.
Non è, questo, il caso della nuova disciplina del licenziamento, perchè sulla estensione della stessa all’impiego pubblico nulla è detto nell’art. 1, con la conseguenza che, in difetto di una espressa previsione, non può che operare il rinvio di cui al comma 8.
Ciò comporta che, sino al successivo intervento normativo di armonizzazione, non si estendono ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni le modifiche apportate all’art. 18 dello Statuto, con la conseguenza che la tutela da riconoscere a detti dipendenti in caso di licenziamento illegittimo resta quella assicurata dalla previgente formulazione della norma.
3.3 – Dette conclusioni, fondate sul tenore letterale della disciplina in commento, sono avvalorate da considerazioni di ordine logico e sistematico che, nel rispetto della doverosa sintesi imposta dall’art. 132 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c., possono essere così riassunte:
Viene, cioè, in rilievo non l’art. 41 Cost., commi 1 e 2, bensì l’art. 97 della Carta fondamentale, che impone di assicurare il buon andamento e la imparzialità della amministrazione pubblica.
3.4 – La ritenuta inapplicabilità della riforma all’impiego pubblico contrattualizzato non può essere esclusa solo facendo leva sul rinvio contenuto nella L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 51, comma 2, “e successive modificazioni ed integrazioni”. Osserva innanzitutto il Collegio che il legislatore del T. U. nel rendere applicabili le disposizioni dello Statuto e, quindi, l’art. 18, a tutte le amministrazioni pubbliche, a prescindere dal numero dei dipendenti, ha voluto escludere in ogni caso, pur in un contesto di tendenziale armonizzazione fra impiego pubblico e privato, una tutela diversa da quella reale nell’ipotesi di licenziamento illegittimo, anche per quelle amministrazioni, pur numerose (si pensi, ad esempio agli enti territoriali minori di limitate dimensioni), per le quali sarebbe stata altrimenti applicabile la tutela obbligatoria prevista dalla L. n. 604 del 1966, art. 8.
Il rinvio, seppur mobile, nasce limitato da detta scelta fondamentale compiuta dal legislatore, che rende incompatibile con la volontà espressa nella norma di rinvio l’automatico recepimento di interventi normativi successivi, che modifichino la norma richiamata incidendo sulla natura stessa della tutela riconosciuta al dipendente licenziato.
Va, poi, sottolineato che, anche in presenza di una norma di rinvio finalizzata ad estendere ad un diverso ambito una normativa nata per disciplinare altri rapporti giuridici, è consentito al legislatore di limitare, con un successivo intervento normativo di pari rango, il rinvio medesimo e, quindi, di escludere l’automatica estensione di modifiche della disciplina richiamata.
Detto intervento, che è quello verificatosi nella fattispecie, fa sì che il rinvio si trasformi da mobile a fisso, ossia che la norma richiamata resti cristallizzata nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla riforma, che, quindi, continua a disciplinare i rapporti interessati dalla norma di rinvio, dando vita in tal modo ad una duplicità di normative, ciascuna applicabile in relazione alla diversa natura dei rapporti giuridici in rilievo.
In via conclusiva ritiene il Collegio di dovere affermare, per le considerazioni tutte sopra esposte, che la L. n. 300 del 1970, art. 18, nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla L. n. 92 del 2012, non è stato espunto dall’ordinamento ma resta tuttora in vigore limitatamente ai rapporti di lavoro di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2.”