Aggressioni verbali, ingiurie e licenziamenti
Cass. civ., sez. lav., 30 marzo 2016, n. 6165 e Cass. civ., sez. lav., 21/03/2016, n. 5523
Le richiamate decisioni della Corte di Cassazione riguardano due ipotesi di licenziamento, derivanti dall’uso di parole volgari nei confronti del datore di lavoro, valutate, solo in un caso, legittimanti il recesso datoriale.
In particolare, la fattispecie decisa dalla sentenza n. 6165/2016 concerne uno scontro verbale tra il lavoratore e il presidente della società che portano il primo a pronunciare frasi di contenuto volgare e intimidatorio.
I Giudici della Cassazione, sulla base delle tipizzazioni degli illeciti disciplinari del CCNL applicato al rapporto, ritengono decisivo il fatto che alla pronuncia di espressioni sconvenienti non è seguito il “passaggio alle vie di fatto”: il litigio, rimanendo limitato all’ambito esclusivamente verbale, rende sproporzionata la sanzione espulsiva, giacché il CCNL richiede che al diverbio seguano le vie di fatto.
La decisione si fonda, dunque, sul presupposto che “le tipizzazioni degli illeciti disciplinari contenute nei contratti collettivi, rappresentando le valutazioni che le parti sociali hanno fatto in ordine alla valutazione della gravità di determinati comportamenti rispondenti, in linea di principio, a canoni di normalità ( Cass. 2906/2005), non consentono al datore di lavoro di irrogare la sanzione risolutiva quando questa costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione”.
Nella seconda decisione le parole ingiuriose sono, al contrario, ritenute di gravità tale da legittimare il licenziamento.
La Corte valorizza la condotta deplorevole del lavoratore così concludendo: “l’esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica delle decisioni aziendali, sebbene sia garantito dagli art. 21 e 39 Costituzione, incontra i limiti della correttezza formale che sono imposti dall’esigenza, anch’essa costituzionalmente garantita (art. 2 Cost.), di tutela della persona umana, sicché, ove tali limiti siano superati, con l’attribuzione all’impresa datoriale od ai suoi rappresentanti di qualità apertamente disonorevoli, di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio, il comportamento del lavoratore può costituire giusta causa di licenziamento, pur in mancanza degli elementi soggettivi ed oggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione (Cass. n. 7091 del 24/05/2001). La stessa contrattazione collettiva applicabile inoltre ha ricompreso la condotta non conforme ai civici doveri tra le ipotesi di giusta causa di licenziamento e nel caso la valutazione di gravità è stata corroborata dalla valutazione della recidiva”.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Fornisci il tuo contributo!